ARAGONES Scuola calcio!


Il ct spagnolo va al Fenerbahçe

«Ma la squadra non ne risentirà»
ROBERTO BECCANTINI, INVIATO A VIENNA
In attesa della Russia, si è portato avanti. Molto avanti. Fenerbahce, la società turca che fu di Zeman e Zico, due stagioni di contratto, l’annuncio giusto ieri, vigilia della semifinale. «Ammesso e non concesso che abbia firmato, la squadra non ne risentirà». José Luis Aragonés Suarez Martinez, 70 anni il 28 luglio, è il «nonno» dell’Europeo. Madrileno ma non madridista (tanto Atletico, in carriera), prese la Spagna dopo lo sgarro portoghese del 2004. I robot di Guus Hiddink lo separano dall’ultimo valzer. A Innsbruck, nella fase a gironi, li aveva suonati: 4-1, tripletta di David Villa. Occhio alla penna: mancava Arshavin, il genietto della lampada. Squalificato.

Aragones è un tipo tutto d’un pezzo. Anche troppo, a volte. Non è un incantatore come Guus, un manager che ha girato il mondo. Quando allenava in Spagna, l’orso olandese notò una svastica in curva e fece annunciare all’altoparlante: o togliete quella bandiera o la mia squadra non gioca. Tolsero la bandiera. Agli Europei del 1996, in Inghilterra, gli scappò di mano lo spogliatoio, bianchi di qua, neri di là. Luis, in compenso, è uno che non le manda a dire. Le dice. Quando parla «para amigos» o qualcosa gli bolle dentro, spara. Diede del «negro di m.» a Thierry Henry e dello zingaro a José Antonio Reyes. E comunque, per lui, meglio zingaro che negro. Si è beccato del razzista dagli inglesi e del rinco dai connazionali, perché sì, ci vuole un bel coraggio a lasciare a casa il miglior Raul dell’ultimo quinquennio e a spedire in panchina niente meno che Cesc Fabregas, la porcellana dell’Arsenal. Aragones non nega e non si nega, ha litigato con mezzo mondo, anche con i suoi: in fondo alla lista, Sergio Ramos.

Pane al pane. Gli hanno insegnato così. Ai Mondiali 2006 tutti gli avevano baciato i piedi fino agli ottavi. Poi fu Zizou, e per i piedi lo avrebbero voluto appendere. Non si è dimesso. E’ rimasto lì, sicuro che la corrente del fiume gli avrebbe portato, prima o poi, i cadaveri dei suoi giustizieri. Morale: la Spagna targata Aragones ha infilato una collana di venti partite utili, 17 vittorie e 3 pareggi. Non ha proprio battuto l’Italia campione del Mondo, ma l’ha esonerata ai rigori nei quarti, il confine di troppe generazioni. Senza Raul, in salotto. E con Fabregas firmatario, sì, del penalty decisivo, ma a lungo consegnato in panchina. Russia in rosso, Spagna in giallo. Vada come vada, non sarà Aragones a godere di un eventuale titolo. Proprio adesso che il Paese cominciava a capirlo - e se non proprio a capirlo, a rispettarlo - ha deciso di sbattere la porta. Troppo tardi, amigos. Al suo posto, Vicente Del Bosque, una vita al Real. L’ultima finale delle furie risale al 1984, Parco dei Principi di Parigi: 2-0 per la Francia, spanciata di Arconada su punizione di Platini («il peggior tiro della mia carriera») e gol-suggello di Bellone. L’aveva anticipato a novembre: «Dopo gli Europei, lascio. Comunque». Ci siamo, quasi. La fine potrebbe essere stasera, la finale sarà domenica. Questione di ore, di giorni. A differenza di Roberto Donadoni, non ha mischiato le Nazionali in dirittura d’arrivo. Fernando Torres e David Villa in attacco. Senna perno arretrato, poi il fioretto di Iniesta e Xavi. Idee chiare. Discutibli, ma scolpite. La formazione? Sempre quella, da Casillas a Torres. I giornalisti non gliela chiedono neanche. E ogni volta che danno un otto a Senna, Aragones brontola giulivo: «Non se lo filava nessuno, quante me ne hanno dette». L’uovo di Luis.



Condividimi

vota su OKNotizie Fav This With Technorati
Posted in Etichette: |

0 commenti: